A Sfregio.

Vi è mai capitato di sentirvi feriti, straziati, doloranti, e avere fretta di mettere fine a tutto, come quando entrano i ladri in casa e al momento della scoperta l’unica esigenza che si avverte è quella di risistemare ogni cosa al suo posto, ristabilire lo status quo, per far finta che nulla sia mai accaduto e che quella invasione di campo non sia mai avvenuta?

A me si.

I ladri in casa mia in meno di 30 minuti hanno rivoltato armadio e culla della piccola, trovato ciò che cercavano, scelto con cura e rapidità cosa prendere – scartando ogni oggetto in argento ma non sapendo rinunciare alle ben più preziose collanine di pasta fatte da Anna all’asilo per la festa della mamma – nascosto la refurtiva nella federa del mio cuscino per poi dileguarsi senza che se ne sia mai più saputo nulla.

Al tempo mi ricordo che piansi tanto, e non per i gioielli che non avevo più (…oddio, per le collanine di pasta ho ancora una fitta al cuore quando ci penso…) ma perché avevano rubato qualcosa di ben più importante per me, l’impenetrabilità della mia fortezza.

Mi sono sempre poi chiesta a cosa fosse servito rigirare il materasso del lettino, come se un genitore potesse mai nascondere una qualunque cosa, di valore poi, lì dove già lascia il suo tesoro più prezioso, suo figlio, e peraltro nel momento in cui è più indifeso del solito perché dorme. Semplicemente un gesto fatto ‘a sfregio’ , come si dice dalle mie parti, giusto per amplificare l’impatto devastante della scena, creare sgomento, affermare la forza, il dominio.

Questo ovviamente unito all’altro affronto di avermi portato via un pezzo del coordinato di biancheria che avevo sul letto, la federa per l’appunto.

Entriamo, distruggiamo, andiamo via.  E ti scoppiamo anche le federe della Fazzini, così.

E non perché c’eravamo dimenticati il sacco, no, solo perché devi soffrì!

Tu rimetti tutto a posto, e l’indomani sotto una pioggia scrosciante vai a sporgere denuncia in caserma e ti becchi anche l’impietoso realismo del carabiniere che, alla tua richiesta di rilevare le impronte lasciate sulle finestre, ti risponde: “ma scusi lei è una persona importante? Perché non è che possiamo scomodare la Scientifica per chiunque…”.

E perciò, per evitare di finire al gabbio per aver picchiato selvaggiamente un uomo in divisa, respiri profondo e te ne vai via realizzando ancora una volta che quello che ti hanno rubato non sono i rubini, i diamanti, gli orologi da collezione del nonno e le collanine di pasta. Ma la tranquillità.

Questa stessa sensazione torna prepotente quando si vive un distacco grave, indesiderato, inatteso.

Accade all’improvviso che arrivi un ladro senza nome e senza volto e ti porti via la tranquillità scassinandoti la cassaforte dei sentimenti con un gran piede di porco in abbandono inossidabile, e una serie di candelotti di dinamite e rifiuto perché si sa, la combinazione dinamite+rifiuto è veloce e attira facilmente l’attenzione. Per un vero effetto WOW!

E come se non bastasse questo ladro cazzimoso, non pago di averti già tolto dalla cassaforte di cui sopra sorrisi, futuro, progetti, intimità, orizzonti nuovi e tutte le altre meravigliose cose che avreste potuto avere insieme, nei giorni successivi farà in modo di farti ricevere messaggi pretestuosi e polemici scritti con le lettere ritagliate dai giornali, come la richiesta di riscatto per qualcosa che tanto non ti restituirà comunque, nonostante tutti i tuoi tentativi di mediazione.

Così, a sfregio. Perché devi soffrì.

La differenza sostanziale tra le due situazioni è che quando ti entrano i ladri in casa e non ti senti più al sicuro, hai sempre la possibilità di ricorrere al piano B: cambiare casa, lasciare il piano terra per un piano alto, farti un portone blindato, le  inferriate alle finestre.

Ma quando ti entrano i ladri nel cuore non esiste un piano B, il cuore non lo puoi cambiare o spostare dal centro del petto  e metterlo accanto al cervello.

E te lo devi tenere a soqquadro e frammentato, indifeso, mentre cerchi di capire come ricomporre il puzzle da sola, per riportare tutto allo status quo e provare, anche in questo caso, a far finta che nulla sia mai accaduto.

Purtroppo il disordine in un cuore non lo sistemi con una rassettata veloce, e le ferite non si saneranno così facilmente, e quello che è stato è stato e non si cancella.

Si potrebbe provare però  a riparare, affidandosi all’antica tecnica del Kintsugi, quella che rende più preziose le cose rotte ricostruendole con della colla a base di oro.

Nella tradizione giapponese, così come non è ammesso che tu non finisca tutto quello che hai ordinato al all you can eat, non è concepibile l’idea di buttare quello che si rompe.

Sti Giapponesi, che hanno a quanto pare un rispettabilissimo rifiuto per lo spreco, hanno scoperto che addirittura uno squarcio lo si può sistemare rendendolo ancora più prezioso, proprio evidenziando le linee di frattura con un metallo pregiato.

E’ l’arte di abbracciare il danno e non vergognarsi delle ferite, di impreziosirsi grazie alle cicatrici sapientemente curate con quanto di più prezioso si possa avere a disposizione, e su quelle ricostruire tutto.

Kintsugi vuol dire riunire, ricongiungere. Mi piacciono un sacco le ricomposizioni, sanno di invincibilità: nulla può distruggere un’unione che saprà sempre rigenerarsi sullo strappo e tutto può essere ricreato, le cicatrici diventano stemmi di battaglie vinte da esibire e una rottura non implica più la fine, ma è piuttosto  il nuovo inizio che si guarda dal gradino più alto del podio, dopo aver vinto anche questa.

Ho letto che nella psicoterapia questa tecnica viene spesso considerata come la base della resilienza, ovvero della capacità di saper affrontare positivamente i traumi e renderli delle opportunità.

Io penso invece che tutto questo abbia a che fare con la resistenza, e cioè la forza che si ci mette nel cercare di salvare prima di buttare, di comprendere la pagina del libro che stai scrivendo prima di voltarla per iniziarne una nuova, di curarsi le ferite prima di infettarle ignorandole o peggio nascondendole.

Resistere invece di resiliere (non credo esista questo verbo, ma tanto qui famo a capisse…), trovare nuovi collanti per tenere uniti i cocci di un qualcosa non è banalmente  darle una nuova opportunità, è darle una nuova vita!

Si potrebbe fare, dicevo.  D’altra parte se sanno farlo in Giappone, perché non dovremmo riuscirci noi occidentali, che ormai pur di saper fare tutto meglio, ci siamo inventati anche il sushi di carne!

Potremmo imparare anche questo, invece di affannarci a nascondere le ferite dietro cerotti di rabbia, come se poi la rabbia fosse una punizione per chi ti trovi di fronte, e invece è solo un dispetto che fai a te stesso, il famoso incastro della doppia fatica…

Ma questo richiede uno sforzo che è molto più impegnativo dell’aprire un secchio e buttarci dentro tutto.

Di cuori in giro se ne trovano tanti e di storie d’amore se ne possono inventare una al secondo, quindi perché porsi il problema di resistere? Molto più facile resiliere, raccontarsi che i cocci sono un’immagine da portarsi dentro per non incorrere nello stesso errore in futuro.

E poi con un colpo di ramazza, buttare tutto nell’indifferenziato.

La considerazione finale, insomma,  è amara ma vale la pena condividerla  qualora non fosse già chiara, e mi piace farlo con le parole di una scrittrice che stimo proprio per la sua puntualità nel fotografare situazioni come questa.

Perché la verità, dice la Tesio, è che siamo gente che non investe nell’amore, siamo gente che investe nel rimpianto, è più sicuro. L’amore poi finisce (forse), il rimpianto è per sempre.

E De Beers: muto.

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