La seconda infornata

Pare che oggi vi debba raccontare qualcosa. Non perché lo voglia io, ma perché diversi segnali me ne danno il senso.

L’applicazione di WordPress che improvvisamente mi invia notifiche sul fatto che anche se non scrivo continuate a venire a cercare i miei articoli, il pc che stranamente dura oltre il dovuto (è sabato si, ma io sto lavorando e vabbè…), l’app di meditazione che mi propone come tematica odierna il fallimento, certi incroci alchemici con contenuti che avevo abbandonato da un pò e che invece oggi mi fanno fermare a farsi guardare, sono chiari segnali che la tastiera stamane debba essere occupata a scrivere di altre questioni o non dei piani di pubblicità per i miei amati clienti.

E credo tutte queste cose vogliano dirmi che io debba scrivermi e raccontarmi di cosa mi è successo ieri. Mi scuserete se lo faccio prima per me, ma è sempre stato questo il senso del mio blog, che io mi capissi leggendomi, quando senza una spiegazione scritta non riesco a mettere a fuoco delle cose.

Ma la faccio breve e vi evito i piagnistei, parliamo per le vecchie care metafore.

Avete presente quando tutto sembra andare bene, le persone vi apprezzano con sincero affetto per quello che fate, le colleghe vi sostengono in imprese che sembravano impossibili, certe situazioni che sembravano totalmente impantanate iniziano a sbloccarsi e ci sono energie che arrivano da fonti ignote, sufficienti per fare anche cose in più, roba che la gente ti ferma e ti chiede: ma come fai a fare tutto?

Il momento in cui si vede la luce ovunque e pare che tutto sommato le cose siano stabili e sufficientemente controllabili.

Ecco, succede all’improvviso che qualcuno spenga la luce e voi vi sentiate abbandonati e disorientati.

Non conta più nulla né tutte le soddisfazioni, persino la positività del mare d’inverno svanisce. E’ solo tutto buio ed è colpa di tutti e di nessuno, questo non si sa ancora bene, l’unica cosa che sai con certezza è che è colpa tua, che non sei stata abbastanza attenta a difendere l’interruttore acceso di quella lucina, che adesso non hai la capacità di ritrovarlo per riaccenderlo e vorresti solo cambiare identità e scappare in Venezuela, come uno che ha commesso un grave crimine e deve nascondersi dal mondo.

Vorrei potervi dire, e dirlo a me, che basta avere la forza di andare avanti e non considerarsi dei perdenti, che il tempo è galantuomo e ad un certo punto vi accorgerete che in realtà voi non avevate nessuna colpa ma siete solo stati le povere vittime del fato, degli eventi o di qualche dio da bestemmiare che si è scordato di voi.

Ne abbiamo già parlato in altri articoli, sapete che io ci credo poco nei disegni divini, sono sempre stata indomita, ribelle e combattiva. Anzi, per dirla giusta, oppositiva. Sostenitrice peraltro del fatto che le cose non capitano “tutte a me”, bensì capitano “tutte per me!”, che c’è sempre da imparare e che gli esami non finiscono mai. Oggi no.

Io lascio che questo dolore mi attraversi, è giusto anche che accada questo, che si elabori, che si accetti.

Ma il messaggio che voglio lasciare scritto qui deve essere positivo, deve esserlo per voi e deve esserlo per me, perché ad un certo punto nel buio si può sbattere la testa, procedere a tentoni e cadere, ma la luce bisogna ritrovarla e riattivarla e per fortuna c’è chi ci ha ragionato e ha condiviso anche con me la sua, riflessione nel momento giusto. Oggi.

E vi starete chiedendo (esattamente come il mio correttore) perché insisti con questa parola “oggi”, oggi Oriana?

Perché se questo articolo mi fosse capitato sotto gli occhi ieri io non lo avrei apprezzato abbastanza, ne sono certa, perché ieri era tutto mare, sorrisoni, belle notizie e scintillii di sole. Luce. Ecco cosa intendo quando vi dico che le cose succedono per noi e non a noi. Il tempismo è tutto per chi ha la voglia di cogliere segnali.

Vi lascio quindi con le parole di Sofia Fabiani, che ha fatto della cucina e delle sue ricette un modo per parlare della vita e di come va affrontata e oggi, mentre introduceva la ricetta dei cantucci, sembrava parlasse a me, al mio senso di inadeguatezza (suonerà strano per chi mi conosce, ma capita anche a me…) alla mia avversione al fallimento, al mio rancore verso un passato che non posso più cambiare e che, purtroppo, travolgerà per sempre anche un’altra vita. A quanto mi spiace, ma… tant’è.

E grazie a Sofia perché senza saperlo che mi torturo ininterrottamente da ieri sera, oggi mi ha messo un sorriso in faccia e ancora un po’ di speranza nel cuore.

Lei dice:

“Incapacy agitati miei, se anche voi vi siete impantanati in un vortice di vita all’insegna della performance, vi do il benvenuto e una pacca sulla spalla.
La sensazione costante della mia vita è che tutto dipenda dalla singola cosa che faccio, anche inserita in un processo e in un percorso, insomma ogni cosa è un esame e ogni cosa è una tragedia. Dentro di me ho un Ponzio Pilato immaginario, colui che decide fra vita o morte, non prevedendo posizioni intermedie, non prevedendo che un giorno un po’ si può morire, ma non del tutto.

Mentre preparavo questi cantucci, mi sono detta “ah se potessi essere questa ricetta, che funziona solo dopo la seconda cottura”, quanto sarei più rilassata. 
Cosa voglio dire con questo? La ricetta ci insegna che è possibile farcela non al primo colpo, e anzi, c’è spesso bisogno di un secondo colpo per raggiungere il risultato, ma che il primo colpo deve partire perché altrimenti il processo non inizia.
Non significa che io abbia sbagliato la ricetta la prima volta (comunque non sarebbe la prima ricetta che sbaglio in vita mia). Significa che il procedimento di questa ricetta mi ha spiegato che si può attenuare un po’ il senso di fallimento imminente, si può pensare che quello che abbiamo realizzato non è un fallimento ma una tappa di un altro progetto e di un diverso risultato.
Se i cantucci non dovessero essere cotti nuovamente dopo la prima infornata, se non ci fosse la necessità di tagliarli e farli biscottare, il risultato sarebbe un enorme serpente pallido e insapore. Ecco incapacy, non ci fermiamo davanti a un serpente, perché deve esserci, ci deve far esclamare “ma che ho fatto? Ma che è ‘sta roba?”. ‘Sta roba la dovete fare a fettine e infornarla.

Ricordiamoci sempre che nessun atto che compiamo è definitivo e, a meno che non facciamo qualcosa di grave tipo un omicidio o servirmi al mio compleanno una mimosa con bagna alcolica (che reputo due situazioni di pari gravità), le occasioni sono infinite, bisogna solo smetterla di fare la lagna, piccoli miei.
La ricetta è molto semplice, non ha bisogno di alcuna tecnica particolare, c’è solo bisogno che non vi ustionate le mani e stiate attenti a quello che fate coi coltelli.

La ricetta poi la trovate qui e se fate i cantucci voglio sapere come è andata la seconda infornata… 🙂

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