Il ricordo di un Amore

E’ tutto molto silenzioso oggi, anche i gabbiani che di solito sono qui a strillare sul cortile di casa mia come se fosse il molo di Fiumicino, se ne sono tornati al mare evidentemente e le rondini hanno evitato di stridere svolazzando impazzite davanti la mia finestra.

Come in quelle mattine di domenica che venivi a svegliarci presto perché dovevamo andare dai nonni, io ti sentivo arrivare in cameretta dallo scandire dei tuoi passi ritmati in corridoio.

Era una fatica ogni volta, lo è anche oggi, con la differenza che oggi non ti sentirò.

Ma trovo che il cielo sia comunque molto più bello da quando ci abiti tu.

Il giorno in cui te ne sei andato era grigio e minacciava pioggia, poi ha retto, ma in quanto a gocce e umido non ci siamo risparmiati.

Ho ingoiato tanti di quei nodi in gola quel giorno, che alla fine il mio stomaco sembrava un sacchetto di ceci secchi, si potevano sentire i bozzi al tatto. Ho iniziato quando la faccia del vicino di casa, che era li a vegliarti con noi,  mi è venuta a cercare in balcone mentre chiamavo la zia per avvertirla che tutto stava precipitando. Ma ho sospirato di sollievo quando ho capito.

Mi spiace, è brutto a dirsi, è crudele, ma non potevo sopportare l’idea che tu soffrissi in quel modo, nonostante continuassi a combattere con tutte le tue forze, era troppo per me.

La tua ultima notte è stata silenziosa, Stefania mi chiedeva come mai non ti lamentassi più, io non sapevo fare altro che sorriderle.  E ho dormito con l’orologio in mano, mi sono affacciata una sola volta a guardarti e si capiva che te ne stavi andando, ma non ho avuto il coraggio di restarti vicina.

L’orologio, lo guardavo in continuazione, non per vedere l’ora ma come se aspettassi un momento, il momento che tutto finisse.

Ho continuato ad ingoiare grumi di lacrime quando è arrivato il prete, quando ho dovuto tirare fuori dall’armadio il tuo abito blu, stirarti la camicia, sorridere e annuire al ragazzo delle onoranze funebri quando mi chiedeva se dovessero farti la barba, sorriderti mentre ti pettinavo quando ti hanno messo nella bara.

Agli amici, ai parenti, agli sconosciuti, ai parenti sconosciuti, sorridere sempre a tutti, accogliere, consolare, sorreggere e non arrendermi mai al dolore.

Nel giorno del tuo funerale ho aspettato che ti portassero in macchina, ho chiuso la casa, poi ho corso per arrivare prima di te in chiesa e farmi trovare li ad aspettarti. Ho ancora abbracciato, sostenuto, ringraziato sorriso ai negozianti che abbassavano le serrande al tuo passaggio, alle centinaia di persone che si sono affollate dentro e fuori la chiesa.

Alla fine di quella giornata avevo in volto due nuovi solchi ai lati della bocca a furia di forzare sorrisi, le chiamano rughe di espressione a me sono sembrate due cicatrici.

E addosso l’odore dei mille dopobarba e profumi invadenti di tutti quelli che, incuranti del concetto di distanziamento sociale obbligatorio (che poi, comunque, secondo me dovrebbe essere una regola perenne lasciare che sia chi soffre a scegliere da chi farsi consolare), erano venuti a salutarti, sulla mia giacca le lacrime di mille persone. Vere, false, chi lo sa, ma tutte lì.

Ti abbiamo accompagnato dove ti avrebbero cremato e ci siamo fermati a guardare il mare, il nostro mare, Salerno. Si vedeva il lungomare dove mi portavi a passeggiare sempre di domenica, a guardare la Madonnina di piazza delle Concordia poi le barchette a mare e i venditori ambulanti di caramelle.

E mi sono ricordata che durante il lock-down non ho avuto altro desiderio, oltre a quello di poterti rivedere, di tornare su quel lungomare dove sono stata solo con chi volevo condividere il tesoro di quei ricordi e di tutto ciò che quel posto significa per me.  In quanti, tra corteggiatori e amici vari, si sono proposti di portarmici. Alla fine ci hai pensato tu.

Il giorno della tumulazione, quando Carmine ha imboccato il viale del cimitero gli sono andata incontro, anche in questo caso per fargli vedere un sorriso prima dell’immensa tristezza del resto della famiglia. È sceso con una busta di tessuto blu. Spuntava una rosa, d’istinto l’ho presa e gli ho chiesto cosa ci fosse dentro. La busta era calda.   Mi ha guardato stupito e io sorridendo ho esclamato: “Ah, è papà!”

Non ho saputo piangerti papà. Anche in quel momento io ho saputo solo sorriderti. Anche se eri ormai cenere, io non ho saputo soffrire, perché sapevo che mi eri vicino.

Ti ho abbracciato con tutta la tenerezza che abbiamo sempre avuto io e te, non ho sentito il pianto della tua compagna, il dolore dei tuoi altri figli, lo strazio delle tue sorelle e dei tuoi fratelli. In quel momento ho dimenticato la mia funzione e la promessa che ti avevo fatto prima che chiudessero la bara, e cioè che avrei sostenuto le fragili impalcature di chi in quel momento non avrebbe saputo nemmeno ipotizzare di arrivare al momento successivo senza di te.

Ho pensato solo a me e a te.

Ti ho stretto più che ho potuto, per darti la sicurezza che per una volta ti avrei retto io, l’urna era calda e riscaldava la mia pancia, il mio petto, le mie braccia, proprio come quando mi stringevo a te tutte le volte che ne avevo bisogno, cioè tutte le volte che potevo in pratica.

Ed ero felice, ti dicevo in un silenzio che ascoltavi solo tu: ”ci penso io a te papà, tu riposa”.

Camminavo da sola davanti al corteo di parenti affranti, per quei viali fiancheggiati da file infinite di cipressi, dove ci portavi tu in quelle domeniche mattina di sveglia presto, a salutare i nonni. Ma questa volta sorridevo. Mi avranno considerata una pazza, ma era troppa la serenità di saperti finalmente liberato da quella atroce sofferenza.

Nei giorni successivi, mentre ero ancora tra le nostre cose, non ho saputo sentire la tua mancanza, eri  una presenza indiscussa e hai avuto modi tutti tuoi per farti sentire da me, come quando ho sbattuto il ginocchio mentre dicevo che il quadro che tanto amavi è veramente brutto. Lo hai spostato tu lo sgabello su cui sono cascata, vero?

Io, che come tu sai, ho superato momenti veramente difficili, situazioni di buio pesto su tutti i fronti, senza mai accasciarmi su un dolore, senza permettergli mai di fermarmi, soffrendo si, ma affrontando tutto di petto, come mi hai insegnato tu.

Ogni giorno ho messo i piedi a terra e un passo dopo l’altro mi sono allontanata dal passato, ho ricostruito e distrutto, e poi ricostruito ancora.

Ma oggi è diverso. Adesso quando mi sveglio so cosa significa aver perduto l’amore, perché nessuno mai si butterà a spada tratta in mia difesa a prescindere, nessuno più sarà spalla solida e sicura su cui appoggiarmi quando sarò stanca. Qui non resta nemmeno una flebile speranza, appesa al famoso filo rosso dei legami indissolubili, che qualcosa torni. Qui, ora, oggi, c’è solo la certezza che non ti vedrò mai più e dovrò farmi bastare i ricordi e combattere col tempo affinché non sbiadiscano mai e non sparisca mai il suono della tua voce dal mio orecchio.

Oggi, che mi guardo allo specchio e mi vedo un pò più vecchia, un pò più radical e un pò meno chic, le rughe sono sempre più marcate, il mio sorriso è una paresi che non controllo più. E tutto sommato va comunque bene quello che vedo, perché nello specchio ci sei sempre un pò anche tu, ringraziando la natura che mi ha reso cosi simile a te.

Oggi, che sono tornata alla mia vita e non ci ho trovato nessuno a consolarmi, o meglio, non chi avrei voluto nè come pensavo di meritarmi.  E ho ricordato tutte le volte che mi hai trovata a piangere, mi hai accarezzato le guance e mi hai mandato a lavare la faccia chiedendomi di smetterla, che era inutile, avremmo risolto in qualche modo. Faccio così anche oggi tutte le volte che mi sento scendere le lacrime e nemmeno me ne accorgo, mi mando a lavare la faccia, e torno rapidamente stabile e serena. Faccio da sola.

Anche se, ti confesso, spesso penso che avevi ragione quando dicevi che le persone che si vogliono bene scelgono insieme i passi da fare, decidono insieme anche quando non sono d’accordo, ma non si abbandonano.  E infatti quante volte non ho fatto come dicevi tu, ma ho fatto lo stesso e tu eri lì comunque sempre, perché ti sei sempre fidato di me.

Anche per questo, quando negli ultimi dieci minuti di lucidità che hai avuto mi hai chiesto se avessi qualcosa da dirti io ti ho risposto che non dovevo dirti niente. In realtà ti avevo così detto tutto.

Non c’era niente in sospeso e tu ci hai lasciato nelle migliori mani in cui avresti mai potuto lasciarci. Le nostre. Quelle che hai stretto tu e guidato senza paura per tutti i sentieri che ci hanno portato a diventare autonomi, sicuri di noi anche se imperfetti, caparbi, sempre gentili, adulti.

Ora dico a chiunque mi chieda come sto che è tutto ok, che un papà come te non lascerà mai sola sua figlia, perché lo so che tu non ti allontanerai mai da me, da noi, troverai il modo di controvertere anche le regole cosmiche ultraterrene se necessario e sarai sempre a guardarmi, a guardarci e ad assisterci.

Ma la verità è che sono in difficoltà. Perché io non mi sono mai sentita così sola.

E ho odiato e odio tuttora quelli che vedendomi, nonostante tutto, risoluta e tranquilla mi hanno detto e continuano a dirmi: “beh è solo l’inizio, arriverà la botta vedrai!”.

L’ho sempre detto che avrei dovuto fare l’attrice, evidentemente interpreto bene una forza d’animo che in realtà non sono sicura di avere, ma comunque io la botta l’ho già presa e l’ho sorretta, mi sforzo di sorreggerla tutti i giorni e in verità penso non sia un caso che io sia diventata così brava a non arrendermi con un esempio di padre come te.

E continuo ad ingoiare nodi, perché non voglio che tu mi veda triste. E non gliela darò vinta a questi che sanno solo lamentarsi di quanto sia tutto ingiusto, di quanto sia impossibile credere che tu non ci sia più, di quanto sia impensabile pensare ad una vita senza te. Ma che ne sanno loro di cosa significhi averti perso?

Di tutte le volte che tu eri ancora in vita ma io piangevo dopo le nostre telefonate perché sapevo che te ne stavi andando, e io non ero lì vicina a te, a godermi ogni singolo minuto dei tuoi ultimi giorni su questa Terra. Quanto tempo ho sprecato.

Di quando l’ultima volta che hai potuto fare una video chiamata dall’ospedale hai scelto di chiamare me perché “volevo sentire una voce pimpante, bell’a papà!”.

Delle telefonate puntuali, ogni 14 febbraio  per tutti i quattro anni in cui ho vissuto a Perugia e mi vedevi solo alle feste comandate, che esclamavi: “Auguri amore mio! Oggi è la nostra festa!”.

Me lo hai detto pure prima di morire “Amore mio, balliamo!”.

Sono passate solo tre settimane da quel giorno, e non era San Valentino, ma sono sicura che me lo ricorderò per sempre e noi resteremo l’uno l’amore dell’altro fino alla fine dei tempi.

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