Sono seduta in una sala d’attesa, devo fare una visita che ho rimandato per troppo tempo.
C’è una donna con me, vestita di nero, avvolta in uno sciarpone, ha posato il cellulare sul divanetto accanto a sé, gambe accavallate in maniera composta, indossa un paio di eleganti décolleté nere, fissa il vuoto.
Ha un problema al collo, si vede da come si muove, prima di girare la testa prova ad arrivare solo con lo sguardo a cercare quel che vorrebbe vedere, e il movimento è una scelta obbligata solo se proprio non può farne a meno.
Anche sulla scatolina degli antidolorifici che sbuca dalla borsa c’è un uomo che si regge la nuca, mi ci cade l’occhio…
“Non fanno effetto più. È dalla fine di agosto che ne prendo prima uno, poi due poi anche tre al giorno per spegnere il dolore e non pensarci. Ma ultimamente il dolore vince sempre. La spalla destra inizia a formicolare e il formicolio arriva fino alla mano.
Per fortuna sono mancina!
Quando deglutisco e sbadiglio, il dolore parte dal centro della nuca e arriva all’orecchio come la morsa di un cavallo quando è tirata dal cocchiere per frenare.
Ma io non freno, mi dico che è solo un attimo e mi concentro su altro”.
Mi parla con tono forzosamente deciso, pare voglia convincermi che tanto sta bene e tutto passa. Io la ascolto.
“Sai cos’è la rettilineizzazione del rachide? È quando l’ultimo tratto della colonna, quello dietro il collo per capirci, non ha la classica lordosi, la normale curvatura che deve avere la colonna cervicale in quel punto.
Ecco io ero nata così, tutta dritta-dritta con questa piccola patologia che sembrava un monito del creatore, del tipo ‘Testa alta sempre, Baby!’ e che se ne stava lì senza dare fastidio.
Con 3 dita ben assestate e la giusta pressione nel tentativo di strozzarmi, l’uomo che diceva di amarmi mi ha risolto questa patologia …pensa!
Peccato che non si è accorto, nel frattempo, che stava spingendo troppo, e che mi stava schiacciando due vertebre.
C6 e C7, discopatia mi hanno detto.
Ora, se malauguratamente mi viene di muovere la testa a tempo di musica, cosa che faccio tipicamente mentre guido spensierata, come una scudisciata il dolore si propaga dal centro della nuca giù fino all’inizio del fondo schiena… Quel fondo schiena bello, tondo e sodo che tanto amava, lo ha fatto diventare il punto di arrivo della sofferenza.
E non mi è più concesso essere spensierata, devo ricordarmi sempre di stare ferma se non voglio la frustata.
E ogni volta che giro la testa dalla base del mio cranio partono dei rumori meccanici, come un ingranaggio di ossa che si inceppa, come se mi stessi smontando, come se la testa mi si potesse staccare da un momento all’altro.
E ogni volta che sento questi rumori ho dei flashback di quei momenti e mi domando come abbia potuto.
Santi e benedetti gli antidolorifici che fino ad oggi hanno bloccato dolore, tenuto a bada ricordi, gestito il male di vivere, risposto con silenzi più rumorosi di mille parole a tutti i miei “…ma perchè?”.
Non me lo chiedere se ho denunciato. Non l’ho fatto, perché fino a qualche giorno fa… ora fa.. attimo fa.. era stato solo un momento di rabbia.
Una donna impiega anche mesi a riconoscere e a dare il nome esatto a quello che fino a qualche giorno fa… ora fa… attimo fa… ha considerato solo un grave diverbio, una lite probabilmente anche passeggera.
Invece si chiama violenza, piccolé.
Ma non lo riesci a dire nemmeno a te stessa finché il dolore non diventa più forte delle medicine, più forte dell’idea che lui non avrebbe mai potuto.
È solo lì che si realizza e si decide, piccolé.
E decidere è facile, decidere di dirselo, di dirlo, di affrontarlo, superarlo.
Ma poi riuscire a fare quel che si è deciso è cosa ben più complessa.
Richiede determinazione, resistenza alle tentazioni, impegno, consapevolezza, fatica.
Perchè anche lasciar andare un dolore è un po’ come mollare la presa sulla corda dei ricordi che ti tiene ancora legata all’altro.
Decidere di curarsi, in questi casi, vuol dire scegliere di allungare le distanze.
E io mi illudo che quando passerà il dolore, passerà anche il ricordo.
Decidere di dirlo è ancora più complicato, e infatti è da sta mattina che mi chiedo: ma come glielo dico alla dottoressa? Che parole uso? Come trattengo le lacrime? Che penserà di me?
…Lo sai che c’è piccolé? Glielo dirò come l’ho detto a te. Se piangerò ce ne faremo una ragione. Se penserà che sono stata una stupida, pazienza”.
Mentre vado verso la mia visita, la sento che mi dice: “Io non mi arrendo, la strada è ancora lunga, ma non mi arrendo! Il mostro non sono io, anzi io ora mi prendo cura di me da sola!”.
Ancora non le credo, la sua voce trema il contrasto tra la sua voglia di rinascere e il dolore della perdita é ancora troppo palese, non le permette di bilanciare tra il bene e il male, impacchettare tutto e trovare un posto dove posare il pacchetto e poi, ricordarsi di dimenticarlo e andare avanti senza.
Però ci prova, fa la sua visita, le prescrivono una risonanza, delle medicine, e poi cicli di fisioterapia. E promettono che il dolore passerà. Almeno quello fisico.
Ed in effetti il nome della clinica pare tutta una promessa, peccato che lei alle promesse non ci creda più.
Scendendo passeggia tra le strade pieni di oleandri in fiore della Roma bella, intanto piove ma lei pensa a quello che l’aspetta, alle abbuffate di coraggio che dovrà farsi per uscire pure da questo altro tunnel nel tunnel, e nemmeno se ne accorge della pioggia e degli oleandri in fiore.
Pensa ancora a quell’uomo, e vorrebbe dirgli che spera possa capire che anche lui ha bisogno di cure, e non per la sua integrità fisica, ma per quella morale ed emotiva.
Vorrebbe dirgli che lei, che pur di non perderlo del tutto si è tenuta l’ultimo segno del suo passaggio violento sul corpo finché ha potuto, forse un giorno lo perdonerà, ma la vita no. Se non le chiede scusa e se non fa qualcosa per meritarselo, la vita non gli sorriderà più sincera e generosa come dovrebbe sempre fare.
Intanto continua a piovere, i fiori sugli oleandri cedono alle folate di vento e volano via colorando prima l’aria poi i marciapiedi dei Parioli. Lei si fa, scudo col suo sciarpone e neanche ci fa caso, la tempesta che si porta dentro non passa nemmeno con il calore della lana grossa in cui si è stretta.
Perchè purtroppo è così. Non è vero che tutto passa. Alcune cose resteranno dentro per sempre.
“E vedrai, piccolé, un giorno ricorderemo tutto questo e ci rideremo su!”
Non penso proprio. Non penso proprio.
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Fate gli Uomini anche dopo aver vinto il contrasto fisico. Andateci. https://www.centrouominimaltrattanti.org/