Congiura

Il rumore dei passi, l’infradito che morbido si appoggia sul vialetto sterrato che dalla strada principale porta ad un ingresso abusivo dell’Oasi di Pirgy. Non sento null’altro. La testa svuotarsi, l’odore del mare invadere le narici e nelle orecchie solo il rumore dei passi che lenti ma sicuri mi allontanano dal rumore dirompente dei problemi, dei dolori, delle parole.

Le parole, che danno forma al pensiero.

In greco parola si dice logos, e logos vuol dire allo stesso tempo anche pensiero: è un segnale chiarissimo che sin dal passato non potesse esistere parola disancorata da un concetto pensato, che partisse dal dentro.

E quindi quando parliamo, quando usiamo le parole, creiamo sempre dei ponti, tra quello che abbiamo nel nostro intimo e quello che c’è fuori. Disegniamo il mondo del possibile, una realtà in costruzione.

Ma le parole spesso fanno anche un’altra cosa: congiurano.

Quando si ordinano affinché la realtà che ci mostrano non è altro che l’insieme di una lunga serie di piccoli slittamenti semantici che ne confondono il senso.

E così, parole deformate e deformanti creano la congiura: entrano tramite le orecchie, come un veleno antico, nella mente di chi le ascolta ma la verità, che non gli corrisponde, non le raccoglie e le lascia cadere nel vuoto.

È questo forse il volo a cui si riferivano i latini: verba volant come avvertimento che non si tratta di palloncini fluttuanti, ma molto più spesso di crolli rovinosi.

Per chi ascolta, un invito a non fidarsi troppo delle parole, che le bocche, così come le memorie, hanno autonomie starate e la durata del ricordo da parte di chi pronuncia non è garantita. Mentre, in media, è sufficientemente duratura per chi ascolta.

Nel bene e nel male.

Difficilmente infatti dimenticherai gli effetti della congiura delle parole belle, i discorsi prospettici o i racconti di ricordi che descrivono storie di serenità desiderata. 

Difficilmente dimenticherai come ti sentirai per via della congiura delle parole che non vengono pronunciate più, quelle che ad un certo punto lasci andare, per autoprotezione più che per rassegnazione, smetti di aspettarle con un lento rilascio della presa su discorsi, fili logici, legami che si sciolgono lentamente, diventando muti.

E ancora, difficile sarà dimenticare il risultato della congiura delle parole che non avresti mai voluto sentire, quelle che mentre te le dicono, già sai che ricordarle per sempre sarà la tua condanna.

Così come difficilmente dimenticherai le parole che avresti voluto sentire e non sono arrivate. O arrivano quando è troppo tardi, non è più tempo, non è più lungo, non hai più l’animo pronto.

Sembrava così anche per questa estate, che non fosse più il suo tempo, non fosse più il suo luogo e che gli animi non fossero più predisposti.

Invece, mentre attraverso quella inferriata divelta che dà accesso alla spiaggia, scopro che a Pirgy è un agosto che morsica la pelle (per dirla con una canzone) nonostante sia ottobre.

Qui a Roma l’hanno chiamata Ottobrata, immagino rispondendo al credo della nostra cultura per il quale se qualcosa nella realtà non ha un nome è come se non esistesse e invece, questa stagione sospesa in un tempo ed in una dimensione indefinita che prescinde da equinozi e cicli lunari, esiste ed ha odori e profumi, colori tutti suoi, che fuori Roma sanno di anormalità, qui invece hanno una loro definizione.

Così le parole assolvono anche ad un’altra funzione: conferiscono un’identità.

Nell’associazione tra fatti, sensazioni e parole ognuno di noi, nelle definizioni dell’altro, può avere una diversa identità, diversa da quella che noi stessi ci riconosciamo.

Così, esattamente come il caldo in autunno a Roma ha una parola che gli assegna il suo nome proprio, mentre altrove è solo caldo – anomalo – in autunno, tu che magari ti senti primavera perenne, fiorellino color pastello che sboccia nei pensieri altrui suscitando la mancanza e in alcuni persino l’urgenza di risentire il tuo bel profumo, nella realtà di chi ti pensa potresti essere uno sgradevole inverno, un nuvolone grigio che intristisce e preoccupa, da guardare con sospetto e distacco e dal quale proteggersi.

E come possono fare le parole a colmare questo dislivello percettivo? Come vanno gestite per ridurre il distacco e minimizzare, nei limiti del possibile, i danni?

Innanzitutto vanno pronunciate. Perché ‘parola’ deriva da – e dunque significa anche – ‘parabola’, e la parabola di fatto è cosa che unisce, seppur con arcate imprevedibili, colma vuoti.

Dicono che è ottobre, ma a Pirgy il mare è calmo e il sole è caldo, e benché ufficialmente non sia stagione, non sia il caso, non sia il tempo, io indosso il mio costume e faccio il bagno.

Così, circondata da pesciolini e conchiglie penso a quale parabola possa colmare il gap tra la realtà e il mio vissuto.

E l’unica che trovo, che supera il pregiudizio, dissolve il concetto di giusto o sbagliato, conferisce il meritato valore al momento in cui mi trovo e vorrei restare, l’unica che è poi quella che conta, è felicità.

Che poi è una parabola jolly, forse un pó semplicistica, e tuttavia penso sia l’unica che tutti dovremmo imparare a disegnare.

Sicuramente anche quella che richiede la più grande forma di coraggio e un costume fatto di sfrontatezza e potente centratura del sé (difficilissima da raggiungere) giusto per tuffarsi nel mare delle conseguenze, delle difficoltà e, perché no, delle parole stesse e nuotarci fino alla riva per gustarsi il più bello dei tramonti.

E dunque intanto, a chi quel costume non lo vuole o a chi lo sta costruendo a fatica, a chi ha trovato la sua parabola, a chi pensa di non averne bisogno e a chi invece ancora la sta cercando….felice ottobrata!

[SPALSH]

(illustrazione di Enrica Mannari)

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